Pubblicazioni : Passato e futuro dell'urbanistica solare

Madre Terra & Città Solari
Dal Tempo Allo Spazio

di Sergio Los
Prof. Arch. Synergia

Convegno Olystyca
Auditorium Fantoni, Osoppo (Udine) 8 luglio 2005.

1 Necessità Versus Felicità

È un particolare momento questo che viviamo, ci troviamo di fronte alla necessità di migliorare, non siamo solo motivati a migliorare dal nostro desiderio ma siamo sollecitati a farlo dal contesto. La progressiva riduzione delle risorse naturali mostra un buco che aumenta costantemente e il mucchio di rifiuti prodotti forma una montagna che continua a crescere; ma l’esigenza di invertire questo processo degenerativo in uno rigenerativo, invece che ridurre le nostre attuali prestazioni ci spinge a una vita molto migliore. Non abbiamo limiti davanti a noi ma opportunità, come se qualcosa svelasse possibilità nuove che avevamo perso di vista. Le città solari che abiteremo non saranno semplicemente macchine alimentate dal sole invece che dal petrolio, ma inaugurano una nuova cultura industriale. Una cultura rovesciata rispetto all’attuale, dove i prodotti vengono progettati a partire dai rifiuti, da quello che diventeranno quando saranno restituiti alla madre terra. È strano per noi vedere le cose in questo modo, la volontà di potenza che ha animato le nostre passate ideologie ha sempre sognato – senza sapere di sognare - risorse illimitate e un’altrettanto illimitata capacità di assorbimento dei rifiuti da parte dell’ambiente. Alla madre terra, continuiamo a strappare risorse pulite non rinnovabili per usarle trasformandole in rifiuti inquinanti: questa è la faccia nascosta del nostro esaltante progresso tecnologico1.

L’evoluzione intrasomatica o biologica contrassegna la vita della madre terra prima dell’uomo, la presenza umana sviluppa una nuova evoluzione culturale che è extrasomatica. Invece che eliminare gli organismi viventi inadeguati come nell’evoluzione precedente ora vengono eliminati gli strumenti tecnici inefficienti (invece di organismi con la pelle sbagliata le case sbagliate). Per produrre questi strumenti e per farli funzionare l’uomo si è messo a estrarre risorse dall’ambiente al quale le restituisce sotto forma di rifiuti. Per molti anni questi processi hanno modificato l’ambiente in modo molto limitato, ma negli anni recenti queste trasformazioni, divenute macroscopiche, hanno raggiunto livelli insostenibili. Anche qui occorre rovesciare la nostra prospettiva e partire non tanto dai problemi nostri ma da quelli dei bambini che abbiamo messo al mondo, da quella madre terra sfigurata che lasceremo loro in eredità. Non bastano correttivi parziali, bisogna inventare un ulteriore tipo di evoluzione, procedere oltre l’evoluzione extrasomatica. Ho proposto in un libro che ha quasi trent’anni un’evoluzione relazionale che invece di eliminare selettivamente i dispositivi inefficienti si propone di eliminare i progetti sbagliati2. La selezione avviene a livello virtuale mediante simulazioni che valutano l’intreccio di conseguenze provocate dagli interventi progettati. Non abbiamo, infatti, un altro pianeta più appropriato, per rimpiazzare questa nostra madre terra. Allora, non ci troviamo in presenza di prodotti isolati ma di reti che comprendono le interazioni interpersonali e ambientali. La selezione operata da questa nuova evoluzione, che ho definito intersomatica, non ha più come referente prodotti isolati ma relazioni, sistemi reticolari, alcune di queste sono accettabili altre vengono eliminate per le conseguenze che comportano. Continuando a fissare l’attenzione sugli oggetti isolati invece che sulle relazioni, non si possono riconoscere né le opportunità né i limiti della crescita attuale. Se la prima evoluzione è stata dentro gli organismi e la seconda fuori di essi, la terza sarà tra gli organismi, considerando anche l’ambiente come un grande organismo.

La risorsa che serve di più, e che per nostra fortuna non ha limiti, è la capacità di inventare, l’immaginazione progettuale umana. Questa risorsa è alimentata da valori, da desideri, più ancora che da conoscenze, che pure sono essenziali. Ci siamo molto preoccupati di conoscere un mondo di fatti, poco di immaginare il mondo che vogliamo. Per noi i valori ci sono o non ci sono, come se anche quelli fossero dei fatti. È difficile comprendere che ci sono i valori che noi produciamo, e solo quelli. Se non li produciamo non possiamo trovarli. I progetti devono perciò considerare centrale questo problema, sapere che ogni progetto implica, anche se non lo mostra, un complesso di valori che spesso contraddicono quello che vorremmo costruire.

2 Geografia delle città solari

Abbiamo bisogno di immaginare la città solare prossima ventura, per due ragioni principali: la prima sostiene che la fine della disponibilità di petrolio non è più in un futuro lontano, e il tempo richiesto per adattare le nostre città è molto breve; l’altra mostra che i mutamenti climatici potrebbero anticipare la fine degli edifici alimentati a petrolio anche prima della fine della disponibilità di petrolio, a causa dell’anomalo surriscaldamento del pianeta. Ma spero di mostrare che dovremmo perseguire le città solari soprattutto per migliorare la qualità della nostra vita anche se il petrolio non dovesse finire e il pianeta non dovesse surriscaldarsi. La continuità della climatizzazione solare, comprendente lo spazio interno delle case e quello esterno di strade e piazze, ha fatto evolvere le città come sistemi di comunicazione. Le città petrolifere, al contrario, isolano la climatizzazione degli interni edilizi e riempiono le strade di macchine, inquinando le città e riducendo le comunicazioni interpersonali alla sola trasmissione di informazioni.

Fare una storia dell’uso dell’energia solare nelle città richiede qualche riflessione che ci riporti a una realtà che, anche se recente, tendiamo a dimenticare. Fino a gran parte del secolo scorso, tutte le città dell’Europa Mediterranea erano essenzialmente solari, mancavano infatti altri sistemi di riscaldamento. E se il riscaldamento degli edifici urbani basato sul petrolio iniziò ad affermarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel nostro paese la diffusione di massa di dispositivi di raffrescamento è cosa del secolo appena iniziato. Possiamo discutere la validità e l’attualità di quelle realtà urbane oppure la qualità della climatizzazione naturale che esse offrivano, ma è evidente che fossero “città solari”, dato che la transizione verso le “città petrolifere” è avvenuta con la graduale sostituzione del carbone che, iniziata negli anni Trenta, si è diffusa nel secondo dopoguerra.

Studi recenti hanno corretto una credenza consolidata, e condivisa da molti ingegneri meccanici, secondo la quale le condizioni di benessere sono le stesse durante tutto l’anno e anche per società che vivono in regioni culturali e climatiche diverse. Queste nuove ricerche mostrano, invece, che le temperature che le persone trovano confortevoli negli ambienti interni variano in funzione della temperatura media all’esterno. Michael A. Humphreys, per esempio, confrontando edifici senza impianti con quelli dotati di impianti di riscaldamento o raffrescamento, è in grado di mostrare le correlazioni tra i mutamenti della temperatura di benessere e le temperature medie mensili esterne3. Queste informazioni ci aiutano a comprendere quanto potevano essere confortevoli le città solari, offrendoci un approccio radicalmente diverso da quello sviluppato dagli ingegneri meccanici. Invece che porre una persona seduta all’interno di una cella sperimentale, attrezzata per fornire variabili condizioni di temperatura, umidità relativa, ventilazione, ecc., e chiedergli di segnalare quando non avverte più alcuna sensazione di caldo, di freddo o di aria in movimento, questi ricercatori svolgono inchieste sul campo, chiedendo a diverse persone se trovano confortevoli i luoghi di lavoro in cui si trovano e misurandone lo stato. Mentre i primi cercano di definire delle condizioni fisiologiche ideali astraendo dai contesti reali, i secondi cercano di comprendere quali situazioni reali siano considerate confortevoli dai soggetti che le vivono.

Quando parlo di città solari i miei interlocutori pensano soprattutto alle città greche e romane. Le città solari sembrano un problema da archeologi, limitato a un passato remoto. È una questione di fatti non di valori, la nostra fede nella modernità e nel progresso ci dota di una struttura di riferimento secondo la quale le città solari appartengono al passato. In effetti, non è facile ricordare case senza impianti, anche perché la cultura delle case con gli impianti, delle machine a habiter prodotte industrialmente, si è diffusa prima degli stessi impianti. Le aspettative create dal movimento moderno di macchine abitabili molto più simili alle auto che agli edifici, al passo col progresso tecnologico, ci fanno ritenere le città solari come una realtà meramente archeologica. In effetti, queste città non sono scomparse, come è invece accaduto per i loro abitanti e per molti dei loro edifici. Basta guardare alle tante città storiche con uno sguardo che riesca a intuire oltre i tanti stravolgimenti e sovrapposizioni sopraggiunti nella più recente epoca del “consumismo energetico”, per riconoscere soluzioni costruttive e tipologie edilizie che potrebbero essere valide per le future città. Abituati ai prodotti industriali che hanno tutti la medesima età poiché funzionano per sostituzione progressiva di quelli precedenti e sono quindi sincronizzati intorno al 2005, non vediamo che le città posseggono una profondità storica che opera per integrazione di prodotti con età molto diverse, appartenenti a culture diverse. Nelle città il tracciato romano è presente senza essere appiattito al 2005 perché i suoi prodotti sono diacronici. Il nostro compito di progettisti è scegliere cosa è meglio per una città, non cosa assomiglia di più alla nostra idea del futuro. Dobbiamo progettare lo spazio non progettare il tempo, quindi non si tratta di proporre un nostalgico “ritorno all’antico”, ovviamente improponibile quanto un avanguardistico “salto nel futuro”, dobbiamo riconoscere invece una necessità: quella di migliorare la qualità della vita nelle città e negli insediamenti rurali, progettando diversamente gli edifici dei prossimi 25 anni. Una progettazione che, comunque, dovrà tener conto del fatto che almeno il 60 per cento delle nuove abitazioni sorgerà in aree già urbanizzate e dovranno, quindi, essere integrate in tessuti urbani pre-esistenti, con tutte le limitazioni ma anche le potenzialità che ne conseguono. Infatti, se alla fine del XIX secolo soltanto il 10 per cento della popolazione mondiale viveva nelle città, all’inizio del XXI secolo si è arrivati al 50 per cento e nei prossimi 25 anni potrebbe raggiungere il 90 per cento degli abitanti del pianeta, due terzi dei quali nei paesi più poveri. I nostri problemi sono molto diversi da quelli del secolo scorso, interessano prevalentemente interventi di riqualificazione, riempimenti delle parti di città lasciate vuote dalle affrettate e disperse espansioni urbane. Gli interventi dovrebbero proporre edifici contestuali, per integrarsi in ambiti preesistenti, non oggetti edilizi indipendenti dal contesto, come quelli proposti da gran parte della cultura architettonica contemporanea.

Quelle città solari non sono scomparse come è accaduto per i loro abitanti e per molti dei loro edifici. Mi avvalgo qui di un genere di storia, interpretata dal punto di vista della progettazione, che implica evitare una riduttiva descrizione delle città passate, e lo faccio col proposito di evidenziare l’appartenenza al presente della tradizione delle città solari e le loro potenzialità tipologiche disponibili ai futuri progettisti di città.

Sono passati vent’anni da una mostra convegno internazionale che abbiamo organizzato a Trieste per conto del Friuli Venezia Giulia, dal titolo “La città del sole”. Questa manifestazione aveva 2 propositi: trasferire alla città le ricerche bio-climatiche svolte alla scala edilizia e mostrare quanti saperi si possono estrarre imparando a “leggere” i contenuti ambientali dell’architettura ordinaria regionale4.

3 Culture stanziali e nomadi

In un suo libro molto importante, Reyner Banham, uno dei pochi storici di architettura che si sono occupati dei contenuti ambientali, perciò di climatizzazione e di impianti, ricorre a una sorta di parabola per presentare due possibili scelte di fronte a questo problema. Messe di fronte alla necessità di doversi riscaldare, due comunità che vivono in una regione boscosa adottano due differenti metodi di impiego delle risorse ambientali disponibili: la prima comunità usa il legno per costruire case, ripari dal freddo; l’altra lo brucia in falò all’aperto intorno ai quali la gente si raduna5. La prima soluzione - la risposta strutturale - è impegnativa ma anche più duratura e caratterizza il comportamento di una comunità stanziale; l’altra risposta - la soluzione energetica - è immediata ma anche effimera e contraddistingue il comportamento di una comunità nomadica. Possiamo dire che le città solari appartengono alla prima delle due culture mentre le città petrolifere caratterizzano soprattutto la seconda; anche se abbiamo coperto il pianeta di edifici, noi rappresentiamo infatti meglio la seconda cultura, quella nomadica che brucia il legno, sebbene nel nostro caso si tratti di petrolio.

Le case e le città dove viviamo tendono a diventare sempre di più dei veri e propri impianti, enormi e complessi, che accendiamo quando ci ospitano e spegniamo quando ne usciamo, come delle grandi automobili parcheggiate. E, in perfetta sintonia con questa metafora automobilistica, l’attuale tendenza nella produzione industriale di edifici è quella di ridurne progressivamente la durata. È infatti invalsa una forma di “consumismo” che non solo brucia petrolio per scaldare le case ma arriva a bruciare metaforicamente anche gli edifici per poterli rifare.

Tante volte mi sono chiesto come mai la nostra civiltà industriale, che è in grado di sviluppare prodotti straordinari, non sia capace di produrre città decenti. È evidente che, nonostante tutti gli sforzi e l’intelligenza di progettisti e amministratori, la città è un problema che non sappiamo risolvere, come avviene, secondo alcuni, per la questione ecologica6. L’una e l’altra erano invece al centro della cultura insediativa stanziale che ha caratterizzato l’Europa mediterranea, che non sapeva fare i nostri attuali prodotti eppure ci ha lasciato città che durano tuttora.

Quando si celebra il nomadismo della nostra civiltà si tende a credere che esso appartenga al tempo, al processo di modernizzazione. Riflettendo sulle città solari e sulla loro attualità, mi è sempre più chiaro che quel nomadismo appartiene invece allo spazio, e la retorica che lo trasferisce al tempo vuole convincerci che dobbiamo abbracciare quel modo di pensare e vivere. La propensione per l’internazionalismo di città e architetture, la facilità di spostamento dovuta alla tecnologia dei trasporti, la globalizzazione mediatica, Internet, vengono proposti come valori di una società in continuo movimento. In un simile contesto, una cultura stanziale oltre che apparire antiquata sembra irrealizzabile, anche se gli attuali mezzi di comunicazione la renderebbero possibile.

In una certa misura, si può sostenere che esso appartiene più alla cultura dell’Europa continentale (comprendente anche l’Inghilterra) che non a quella dell’Europa mediterranea. Quei grandi spostamenti di popoli e di civiltà che erano le invasioni barbariche e le varie forme di colonialismo, sono stati più frequenti nell’Europa continentale, che ha anche maggiormente sviluppato una cultura compatibile con questi processi migratori. Visitando, tempo fa, una grande mostra della civiltà celtica a Venezia, mi sono meravigliato di trovare oggetti bellissimi, navi, macchine, armi, ecc., ma non città e neanche una cultura architettonica confrontabile con la nostra. Riflettendo su questa esperienza, ho cominciato a pensare che molte discussioni sulle caratteristiche della cultura architettonica, sugli effetti della tecnologia industriale nell’evoluzione degli edifici e degli insediamenti siano mal poste. La contrapposizione tra coloro che vogliono accentuare l’apporto delle innovazioni tecnologiche alla soluzione dei nostri attuali problemi e quelli che, invece, accusano la tecnologia di tutti i nostri mali è irrisolvibile poiché non fa alcuna distinzione fra i vari tipi di prodotti, e in particolare fra i prodotti mobili (auto, computer, televisione, ecc.) e quelli immobili (edifici, città, strutture insediative, ecc.). L’icastico slogan, di lecorbusiana memoria, che vede la casa come machine a habiter ha portato a credere che i prodotti immobili si possano produrre con gli stessi criteri di quelli mobili, una credenza motivata dai tanti successi raccolti nel realizzare questi ultimi. Eppure il lungo ciclo di vita, l’intreccio di relazioni col contesto, la multi-funzionalità sono rilevanti caratteristiche dei beni immobili che suggeriscono di distinguere i due processi produttivi, e che spiegano anche le attuali difficoltà. Dove incontriamo i maggiori problemi? Nelle città, negli edifici, nell’agricoltura, nell’ecologia, nei tanti conflitti etnici territoriali, ecc., cioè negli ambiti che interessano proprio i prodotti immobili.

Oggi queste due culture, quella stanziale e quella nomadica, sono in buona misura sovrapposte, nel senso che abitano le stesse regioni, anche se una delle due si sente più a casa propria dell’altra. A queste due culture, invece che attribuire due aree geografiche con tradizioni differenti, attribuiamo due diverse epoche storiche con un implicito giudizio di valore: alla cultura stanziale attribuiamo il tempo passato, mentre a quella nomadica attribuiamo il futuro. Così la cultura dell’Europa Mediterranea, capace di produrre città apparterrebbe alla storia passata, irripetibile e quella dell’Europa Continentale dovrebbe appartenere al futuro che si apre davanti al nostro presente. Il mito del progresso descrive come un destino questa scelta, il tempo non si può fermare: dunque il trionfo del modello continentale è solo questione di tempo. È una ripresa di quella “scienza della storia” che ci ha regalato altre ideologie, con risultati che sarebbe meglio evitare di ripetere.

Se la rivoluzione industriale nasce nell’Europa Continentale e raggiunge quella Mediterranea solo molto più tardi, vi sono delle ragioni che dobbiamo comprendere. L’Europa Continentale diffonde la cultura della Riforma che ha portato alle società liberali delle economie moderne e dei prodotti mobili. L’Europa Mediterranea ha invece prodotto una cultura urbana che non solo gli è stata tolta ma che deve anche considerare senza ritorno: è la cultura delle città intese come sistemi di comunicazione.

Le città dell’Europa Mediterranea hanno sviluppato, insieme al linguaggio, un evoluto sistema di comunicazioni interpersonali, proprio attraverso l’organizzazione della loro architettura civica. Hanno anche insegnato a tutto il mondo come costruire queste città. Non a caso, la cultura architettonica delle città mediterranee ha anche sviluppato, mediante la codificazione degli ordini, quella doppia durata dell’architettura che riguarda sia le opere che il loro sistema simbolico. Il sistema classico che ne deriva è fondamentale per rendere leggibile la coerenza delle reti di architettura civica, e comunicativa la città che con esso è costruita.

4 Prodotti mobili e prodotti immobili

L’energia solare ha messo in moto la vita sulla terra: l’evoluzione intrasomatica (biologica) e quella extrasomatica (culturale), ho già accennato a quella intersomatica che interessa le nostre comunicazioni e interazioni7. Questa che fa evolvere i nostri sistemi di comunicazione/interazione sia con le altre persone che con l’ambiente “naturale” è dunque l’evoluzione che dovrebbe consentirci di costruire città comunicative.

La compresenza di culture differenti che contraddistingue quel complesso di prodotti diacronici che le città costituiscono aiuta a capire le difficoltà incontrate nel realizzare oggi città solari. L’industrial design conta di ridurre tutto ciò che viene realizzato, dal cucchiaio alla città, alle modalità caratteristiche dei prodotti mobili: breve ciclo di vita, mono-funzionalità, relativa indipendenza dal contesto, produzione di massa, stessa temporalità. Edifici e città resistono da più di un secolo a questo trattamento, e penso che i risultati mediocri ottenuti in questi ambiti provengano dal mancato riconoscimento della loro specificità. Essendo prodotti immobili, essi hanno un ciclo di vita molto lungo, sono spesso multi funzionali per i mutamenti nelle destinazioni d’uso, sono fortemente dipendenti dal contesto, non sono prodotti di massa (quando si è tentato di renderli tali la qualità è stata molto bassa), hanno temporalità differenti. Non ha senso pensarli riducibili ai prodotti mobili.

Le “macchine urbane ”, ovvero le città che oggi abitiamo vorrebbero assomigliare sempre più a quei prodotti mobili di cui sono piene. Il consumo che mette in moto l’economia delle “welfare societies” è formato quasi esclusivamente da prodotti mobili (auto, computer, aerei, navi, moto, arredi, vestiti, ecc.), che propagano l’illusione di una felicità individuale. La perversione del consumismo consiste soprattutto nell’idea di poter rinunciare alla vita sociale, dunque anche alla città, come condizione della sua promozione. Il consumo di prodotti mobili si propone come alternativo all’uso della città, ne fa scomparire il desiderio. La rimozione delle città non ne evidenzia la rinuncia ma le fa apparire impossibili, in contrasto col progresso tecnologico.

Nello spessore temporale delle città europee coesistono la cultura urbana dell’Europa mediterranea e quella dell’Europa continentale, ma l’appiattimento temporale dei prodotti mobili fa apparire attuale solo la seconda, ponendo l’altra nel passato. La questione che dobbiamo porci, dunque, è se perseguire una integrazione tra queste diverse culture, riqualificando gli edifici per renderli coerenti coi tracciati in cui si trovano, oppure continuare a credere che le città autenticamente moderne sono residenze parcheggiate per accedere ai servizi urbani e accelerare la trasformazione di tali residenze in prodotti mobili.

In poche parole: se vogliamo che accanto al “sogno americano” di città diffuse caratteristico dell’Europa Continentale, abbia un posto anche il “sogno europeo” contrassegnato dalle città conviviali dell’Europa Mediterranea8. Queste sono anche due culture tecnologiche radicalmente differenti9, che in parte possono essere complementari e in parte sono alternative.

Se anche il petrolio non dovesse finire e pure il riscaldamento del pianeta dovesse arrestarsi (eventi assai poco probabili) o addirittura rivelarsi un fenomeno non causato dalle attività antropiche, la costruzione delle città solari dovrebbe comunque riprendere, per la qualità ambientale e umana che le caratterizza e che le rende comunicative, non certo perché non possiamo fare altrimenti. La cosa più singolare è che, spesso senza esserne consapevoli, abitiamo già delle città che sono state solari, che quindi, proprio per questo, presentano notevoli potenzialità non solo per continuare a esserlo, ma per migliorare questa loro attitudine. Nell’Europa Mediterranea abitiamo città solari senza saperlo; anche se le città storiche restano confuse da interventi recenti che non sono in grado di leggere, per comprenderlo, il senso della loro matrice “solare”.

5 Città solari che risparmiano essergia

L’attuale uso del petrolio è sbagliato anche da un altro punto di vista, da quello scientifico, termodinamico. Per comprendere i problemi posti dalle scelte energetiche è necessario considerare le due dimensioni dell’energia: la dimensione quantitativa e quella qualitativa. La prima che definisce la sua quantità e potrebbe essere riferita al primo principio della termodinamica, per il quale la quantità di energia che entra in ogni processo di trasformazione è uguale alla quantità che ne esce; la seconda che definisce la sua qualità e potrebbe essere riferita al secondo principio della termodinamica, secondo il quale in ogni processo di trasformazione del calore in lavoro, la quantità di energia-calore che entra nel processo è diversa dalla quantità di energia-lavoro che ne esce, una certa quantità del calore viene dissipata nell’ambiente circostante il sistema. In questo caso non è cambiata la quantità di energia interessata dalla trasformazione mentre è cambiata la sua qualità. La quantità è la stessa, ma la temperatura è più bassa. Si è prodotta entropia, ed è cambiata la qualità dell’energia, la sua capacità di effettuare un lavoro, vale a dire quella che viene anche chiamata essergia, qualità dell’energia che dobbiamo cercare di conservare.

Quella quantità di energia-calore che ha raggiunto la temperatura dell’ambiente circostante non è più distinguibile da esso, si trova in uno stato di equilibrio e non è più in grado di essere convertita in energia-lavoro. Ciò che abbiamo perduto è la differenza tra i due, solo la forma è cambiata non la quantità di energia che rimane la stessa. Da questo si possono ricavare due osservazioni: non esiste la possibilità di trasformare tutta l’energia-calore in energia-lavoro; solo quando l’energia-calore è distinguibile dall’ambiente esterno al sistema, cioè si trova in uno stato senza equilibrio, essa può essere trasformata in energia-lavoro. Ciò di cui abbiamo bisogno è la differenza, una risorsa formale che è distinzione, non una risorsa materiale misurabile intermini di quantità.

La nostra capacità di riconoscere un sistema dipende dal fatto che esso è in qualche modo differente dal suo ambiente esterno. Come nel linguaggio, per poter designare qualcosa devo prima distinguerlo10. Possiamo anche rilevare che il livello di distinzione tra sistema e ambiente circostante equivale al grado di allontanamento dallo stato di equilibrio e al livello di «informazione termodinamica ». Se consideriamo l’entropia del sistema distinto dall’ambiente, e l’entropia dello stesso sistema diffuso nell’ambiente, perciò non più distinguibile, l’informazione termodinamica sarà definita come la differenza tra queste due entropie. Essa misura la perdita di informazione che si ha per il fatto di non essere più in grado di distinguere il sistema dal suo ambiente circostante.

Sappiamo che esistono vari livelli di informazione termodinamica e che essa in quanto contraddistingue un allontanamento dallo stato di equilibrio, rappresenta la possibilità alla trasformazione della energia-calore in energia-lavoro. Diverse possibilità di trasformazione si esprimono quindi mediante diversi livelli di informazione termodinamica, che può perciò essere assunta come una misura generalizzata della disponibilità dell’energia a compiere lavoro.

Questa disponibilità, caratterizzata, dal coefficiente di rendimento di Carnot, dall’energia libera di Gibbs, dall’essergia di Rant e Evans11, misura il lavoro potenziale di un determinato sistema. Mentre in ogni processo di trasformazione energetica l’energia si conserva, l’essergia si perde. Questa caratterizza allora la seconda dimensione dell’energia, la sua qualità.

Quando si parla di risparmio di energia e di ricerche per la conservazione della energia si dice in modo metaforico qualcosa che nel linguaggio scientifico deve essere espresso diversamente. L’energia non può che essere conservata, non possiamo non risparmiare energia. Ciò che invece deve essere conservato è il lavoro potenziale, la disponibilità dell’energia a trasformarsi in lavoro, cioè l’essergia.

In periodi di energia facile abbiamo usato sistemi a alto grado di informazione termodinamica anche per rispondere a richieste relative a un basso grado: l’energia della fiamma che brucia petrolio, molto distinguibile dall’ambiente circostante, per riscaldare stanze nelle quali l’aria doveva essere poco distinguibile dall’ambiente esterno. Come se disponendo di scatole grandi e piccole e oggetti ugualmente grandi e piccoli avessimo usato anche per gli oggetti piccoli le scatole grandi, confidando nella illimitata disponibilità di scatole grandi, senza il problema di far corrispondere scatole e oggetti. Ma oggi che siamo a corto di scatole dobbiamo usare anche le più piccole trovando gli oggetti adatti a entrarvi. Case e città sono, nella metafora delle scatole, oggetti piccoli per la bassa temperatura richiesta dalla loro climatizzazione, per esse andrebbe bene anche l’energia solare, rappresentata dalle scatole piccole. Per la pigrizia dei progettisti che non vogliono cercare le scatole piccole continuiamo a usare le scatole grandi, che rappresentano il petrolio, e che potrebbe essere più utilmente usato per altri impieghi. Naturalmente l’alto grado di concentrazione dell’energia richiedeva minore competenza progettuale e poneva minori problemi di regolazione e controllo. Ma oggi in periodi di energia difficile diventa necessario adeguare a ogni richiesta relativa a uno specifico livello di informazione termodinamica il più basso livello possibile compatibilmente con i vincoli posti dal sistema. Da ciò la necessità di progettare le tecnologie energetiche più rispondenti per rendere minimi i consumi di essergia o di informazione termodinamica.

Abbiamo visto che il petrolio è sprecato quando si usa per climatizzare gli edifici; inoltre dobbiamo estrarlo e trasportarlo nelle nostre case, bruciarlo producendo alte temperature che poi devono essere portate alla temperatura di utilizzo, quando abbiamo l’energia solare che è già distribuita sulla terra, che si trova alla temperatura utile e viene fornita a domicilio gratuitamente.

Nel vedere una nuova centrale, con le sue strutture di acciaio, cemento armato e vetro, accanto a un vecchio mulino di legno sembra che quella sia destinata a sfidare i secoli, questo a essere abbattuto dalla prima burrasca; cosi i difensori dei mulini d’oggi appaiono, come Don Chisciotte, Cavalieri della Mancia all’assalto dei sogni, anche se le parti sono scambiate e sono le centrali stavolta oggetto dell’assalto12. Un momento di riflessione consente di comprendere che mentre la centrale dura quanto lo consente la corrosione dei materiali con cui è costruita e la disponibilità del petrolio che la alimenta, il mulino dura quanto il sole. Il legno usato per costruirne le pale e il fusto, il vento che le fa girare sono prodotti attraverso l’energia solare, così sono rinnovabili finché il sole fa crescere le piante e scaldando l’aria genera il vento. È utile distinguere le risorse materiali-energetiche usate nella produzione della centrale o del mulino da quelle che servono per azionarli: le prime sono risorse di formazione, le seconde risorse di funzionamento. Si possono adesso confrontare tra loro cemento e legno, cioè le risorse di formazione della centrale e del mulino; quindi per l’una e l’altro le risorse di funzionamento: petrolio e vento.

Le risorse materiali-energetiche cui l’uomo può accedere provengono da due fonti differenti. La prima fonte è uno stock costituito dai giacimenti minerari in superficie per il cemento, sottoterra per il petrolio; la seconda è un flusso formato dalle radiazioni solari che diventano biomassa per il legno, correnti d’aria per il vento. Occorre mettere in rilievo le radicali differenze tra queste due fonti. L’uomo ha un controllo quasi totale sulla riserva di cui risulta dotata la terra: al limite potrebbe disporne totalmente usando tutto in un solo anno. Sulla radiazione solare invece, rispetto ai risultati pratici che vorrebbe ottenere, non ha controllo alcuno, né in termini di spazio poiché non può trasportare l’energia solare dove non c’è; né in termini di tempo in quanto non riesce a usare oggi il flusso di radiazione futuro.

Per tornare al nostro mulino, diremo che esso rappresenta in molti casi il tipo di energia più adatto a risparmiare informazione termodinamica, quando non venga usato, come qualcuno propone, per produrre energia elettrica da usare nel riscaldamento degli ambienti. Dovrebbe comunque essere ormai chiaro che di fronte a una grande varietà di richieste di essergia è necessario disporre di una altrettanto grande varietà di tecnologie, in grado di adattarsi a tali richieste, le energie rinnovabili consentono di estendere questa varietà e rispondere correttamente a molti dei requisiti d’uso.

In periodi di energia facile ci siamo abituati a un uso sbagliato dell’essergia: utilizziamo la fiamma che brucia il petrolio e gli altri combustibili fossili per riscaldare stanze nelle quali la temperatura dell’aria deve essere di poco distinguibile da quella dell’ambiente esterno. Come se disponendo di oggetti e di scatole grandi e piccole avessimo usato anche per gli oggetti piccoli le scatole grandi, confidando nella illimitata disponibilità di scatole grandi. Ma oggi che siamo “a corto di scatole” dobbiamo usare anche quelle più piccole trovando gli oggetti adatti a entrarvi. Case e città sono, nella metafora delle scatole, oggetti piccoli per la bassa temperatura richiesta dalla loro climatizzazione e per esse andrebbe bene anche l’energia solare, rappresentata appunto dalle scatole piccole. Ma per la pigrizia dei progettisti, che non cercano le scatole adatte alle cose più piccole, continuiamo a usare le scatole grandi, che rappresentano i combustibili fossili, i quali potrebbero essere più utilmente usati per altri impieghi. Naturalmente l’alto grado di concentrazione di queste fonti energetiche richiede minore competenza progettuale e pone minori problemi di regolazione e controllo. Ma oggi, in periodi di energia difficile, diventa irrinunciabile adeguare a ogni richiesta specifica uno specifico livello di essergia, il più basso possibile compatibilmente con i vincoli posti dal sistema. Da ciò la necessità di progettare i processi energetici più rispondenti, per rendere minimi i consumi di essergia.

Abbiamo visto che i combustibili fossili sono sprecati quando sono utilizzati per climatizzare gli edifici. Basti pensare che prima dobbiamo estrarli e trasportarli nelle nostre case per bruciarli e ottenere alte temperature che poi devono essere ridotte alla temperatura di utilizzo. Tutto questo quando abbiamo l’energia solare che è già distribuita sulla Terra, alla temperatura utile e fornita a domicilio gratuitamente. Dovrebbe comunque essere ormai chiaro che di fronte a una grande varietà di richieste di essergia è necessario disporre di una altrettanto grande varietà di tecnologie, in grado di adattarsi a tali richieste. Le energie rinnovabili consentono di estendere questa varietà e rispondere correttamente a molti dei requisiti d’uso. La città solare rappresenta una tecnologia che fa risparmiare essergia, il sapere migliore per risolvere il problema energetico in molte regioni climatiche. Osservando il consumo di energia nel mondo si vede che gli edifici coprono circa la metà dell’energia consumata dalla popolazione mondiale13.

6 Un'architettura civica comunicativa

La città solare costituisce la tecnologia di cui abbiamo bisogno per risparmiare essergia, è il migliore know-how disponibile per risolvere il problema energetico in molte regioni climatiche.

Il tipo della città solare può essere esemplificato sia da resti archeologici di città come quelli di Timgad e Priene che da città attuali come Verona e Torino. Avrei potuto sceglierne molte altre naturalmente. Essenzialmente, la tecnologia di cui abbiamo bisogno per risparmiare essergia, e costituisce il sapere migliore per risolvere il problema energetico in molte regioni climatiche. Osservando il consumo di energia nel mondo si vede che gli edifici consumano la metà dell’energia consumata dalla popolazione mondiale. La storia non rappresenta il modo migliore per comprendere il concetto di città solare. La data della sua costruzione oppure il riferimento allo spirito del tempo, che essa dovrebbe esprimere, non sono caratteristiche pertinenti. La pratica entro la quale usiamo il concetto di città solare consiste nello sviluppare buone soluzioni al problema energetico. Il concetto di città solare, esemplificato sia dai resti archeologici di città come Palmira e Priene che da città attuali come Verona e Torino, presenta questi tratti distintivi: due componenti interattive: il reticolo di strade e piazze e gli edifici che vi si affacciano conformandolo e rendendo tale sistema di luoghi un punto di incontro. Tale relazione è analoga a quella che connette il linguaggio e i suoi parlanti. Nessun linguaggio può esistere senza parlanti che comunicano ma il linguaggio sopravvive alla scomparsa dei suoi parlanti; e, a sua volta, produce i nuovi parlanti. Insomma: il ciclo di vita del linguaggio è più duraturo di quello dei parlanti. Similmente, il reticolo urbano, condiviso dagli edifici che vi prospettano, sopravvive alla sostituzione di tali edifici e produce nuovi edifici. La rete di architettura civica e gli edifici che vi si affacciano hanno un diverso turn over, in molte città italiane abbiamo ancora l’architettura civica romana con quasi tutti gli edifici sostituiti dai nuovi. Il farsi delle città, considerate come sistemi simbolici, produce una realtà civica, esso realizza una cultura urbana, che si chiama urbanità, intesa come modo di vivere14. Nelle città solari troviamo una rete di architettura civica orientata secondo la geometria solare e i tipi edilizi differenziati in rapporto alle diverse posizioni che occupano in tale rete urbana. Nelle città dove risulta tuttora operante una rete urbana orientata potremmo ristrutturare mediante opportuni progetti urbani gli edifici esistenti e costruire quelli nuovi seguendo i tipi edilizi solari nelle diverse posizioni. Un processo che potrebbe essere integrato negli annuali interventi di manutenzione.

L’uomo vive la sua vita consapevole esprimendola, trasformando le impressioni in espressioni. Esprimere significa dare forma alla realtà con la quale l’uomo interagisce. Le forme simboliche, linguaggio, mito, arte, storia, scienza, ecc sono i vari modi mediante i quali l’uomo esprime le sue relazioni con l’ambiente. Penso la città come una di queste forme simboliche, o sistemi simbolici, in quanto essa da forma alle espressioni dell’essere umano. Le città mediano simbolicamente le complesse relazioni che gli uomini intrattengono col mondo e le rendono comunicative. Le città non sono soltanto i luoghi dove le comunicazioni avvengono, sono esse stesse parti integranti di un sistema di comunicazione15.

La storia delle antiche città solari mostra che i tracciati urbani (le reti della loro architettura civica) erano orientate seguendo la geometria solare ed eolica. I loro tipi edilizi erano differenziati in rapporto alle diverse posizioni, avevano forme asimmetriche per captare la radiazione solare e applicavano le conoscenze codificate, da Vitruvio in poi vi era la conoscenza per orientare e dimensionare i portici e gli aggetti del tetto e ottenere così il sole d’inverno e l’ombra d’estate. Questa tecnica solare, documentata da molte ricerche archeologiche, divenne antiquata quando gli impianti di riscaldamento e raffrescamento superarono i sistemi solari. Molte città europee preservano le antiche reti solari di architettura civica tracciate al tempo dei romani, ma hanno sostituito i precedenti tipi edilizi solari con nuovi tipi edilizi dipendenti dal petrolio. Tuttavia, nelle città dove risulta tuttora operante tale rete si potrebbero ristrutturare gli edifici esistenti con opportuni progetti e costruirne di nuovi secondo i tipi edilizi solari più appropriati ai diversi contesti. Un processo, questo, che potrebbe essere integrato negli annuali interventi di manutenzione.

Lo sviluppo sostenibile raccomanda città compatte. Vi sono due modi per raggiungere la compattezza che permette di aumentare la circolazione pedonale e spostare il traffico dall’attuale circolazione intra-urbana a quella futura inter-urbana. La prima riguarda la costruzione di grattacieli e megastrutture, l’altra persegue la compattezza mediante la costruzione di isolati urbani (come è stato fatto nelle città storiche). Seguendo quest’ultima tendenza, potremmo integrare meglio i nuovi interventi nel tessuto delle città preesistenti. L’alta densità di queste città, i cui edifici hanno altezze relativamente basse, offre una buona soluzione alla rinascita delle città solari.

Al fine di accrescere la consapevolezza di cittadini e progettisti intorno all’argomentazione che le città solari appartengono al presente e non al passato, dobbiamo renderci conto che i tracciati solari sono sotto i nostri piedi anche se non li vediamo, che molte delle nostre città possiedono una rete di architettura civica progettata per soddisfare i requisiti dell’energia solare e che molti edifici richiedono soltanto qualche aggiustamento per diventare solari. Nella manutenzione programmata di questi edifici come nella loro riqualificazione potremmo sostituire le attuali componenti degenerative (elementi costruttivi costituiti da materiali inquinanti, dissipanti energia, non riciclabili, ecc.) con quelle rigenerative solari per risparmiare essergia.

Uno dei maggiori ecologisti, J. Lovelock, che ha scoperto essere il nostro pianeta un organismo vivente non un ammasso di entità indipendenti, in un’intervista a “Le Monde” 16 dichiara che il riscaldamento del pianeta ha raggiunto livelli di pericolo tali da indurre una sostituzione del petrolio prima del suo esaurimento e che l’unica energia in grado di sostituirlo subito sarà quella nucleare. Per quanto possa scandalizzare questa disarmante e insolita affermazione, coloro che credono nell’energia del sole dovrebbero cambiare marcia. Un’altra questione mi preoccupa in questo scenario italiano, ridurre il consumo di petrolio significa anche ridurre le relative consistenti entrate percepite dallo stato, che contemporaneamente dovrebbe ridurre le tasse agli utenti del sole per indurli a cambiare fonte energetica. Qualche esperto dovrebbe studiare il modo per risolvere questo problema.

Ho fatto questa premessa per mostrare le città solari, con la speranza che ora si vedano con l’occhio prospettivo di chi ne coglie l’applicabilità non con l’occhio storico che le considera bellissime ma col rimpianto di cose oramai passate (liberato anche dall’impegno di realizzarle). Vorrei che queste città solari si presentassero come contemporanee alle città presenti, sovrapposte a quelle ma rese invisibili da una ideologia che nel nominarle le interpreta come distinte nel tempo, non nella cultura e nello spazio. Sono due prospettive diverse che non perseguono gli stessi obbiettivi, una ha ideali di nomadismo che producono straordinari prodotti mobili, che troviamo nelle nostre attuali città industriali, l’altra ha ideali di radicamento che possono produrre meravigliosi prodotti immobili, che si rivelano nelle reti di architettura civica dei nostri centri storici. Il “sogno americano” è l’espressione di quella cultura, tuttora extrasomatica, che sta conquistando l’intero pianeta, l’altra è quel “sogno europeo” che potrebbe intraprendere una cultura intersomatica delle città. Un progetto appropriato può integrare questi sogni.

Note Bibliografiche

  1. A chi fosse interessato a questa nuova cultura posso suggerire alcune recenti pubblicazioni: Hawken, P., Lovins, A., Hunter Lovins, L., NATURAL CAPITALISM, CREATING THE NEXT INDUSTRIAL REVOLUTION, Little Brown and Company, New York 1999; HARVARD BUSINESS REVIEW on Business and the Environment, Harvard Business School Press, Cambridge MA 2000; McDnough, W., Braungart, M., CRADLE TO CRADLE, REMAKING THE WAY WE MAKE THINGS, North Point Press, New York 2002; Mau, B., MASSIVE CHANGE, Phaidon Press, London 2004.
  2. Los, S., SISTEMI DI PRODUZIONE E SISTEMI DI CONTROLLO, in Los, S., F. Pulitzer, N. (curatori), “L’architettura dell’evoluzione” Parma, Bologna 1977.
  3. Humphreys, M. A., “Field Studies of Thermal Comfort Compared and Applied”, Journal Inst. Heat. & Vent. Eng., 44, 1978, pp 5-27.
  4. Los. S., Pulitzer, N. (a cura di), LA CITTÀ DEL SOLE, LA PROGETTAZIONE URBANA AMBIENTALE -ENERGETICA, Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1985.
  5. Banham, R., AMBIENTE E TECNICA NELL’ARCHITETTURA MODERNA, Laterza, Bari 1978.
  6. Luhmann, N., COMUNICAZIONE ECOLOGICA, Franco Angeli, Milano 1989.
  7. Los, S., SISTEMI DI PRODUZIONE E SISTEMI DI CONTROLLO, op. cit.
  8. Rifkin, J., IL SOGNO EUROPEO, Mondatori, Milano 2004.
  9. Gras, A., FRAGILITE DE LA PUISSANCE, SE LIBERER DE L’EMPRISE TECHNOLOGIQUE, Fayard, Paris 2003.
  10. Spencer Brown, G., LAWS OF FORM, Gorge Allen & Unwin, London 1969.
  11. Tribus, M., Shannon, P. T., Evans, R. B., WHY THERMODYNAMICS IS A LOGICAL CONSEQUENCE OF INFORMATION THEORY, in “A.I.Ch.E. Journal” 12, N° 2, 1966.
  12. Los, S., IL MULINO E LA CENTRALE, introduzione a McGuigan, D., “Energia dal vento a piccola scala” Franco Muzzio, Padova 1979.
  13. Behling, S. e S., SOL POWER, THE EVOLUTION OF SOLAR ARCHITECTURE, Prestel verlag, Munich 1996, pp. 20-21.
  14. Goodman, N., WAYS OF WORLDMAKING, Hackett, Indianapolis/Cambridge 1978 (Vedere e costruire il mondo, Laterza, Bari 1988).
  15. Cassirer, E., FILOSOFIA DELLE FORME SIMBOLICHE, La Nuova Italia, Firenze 1961; Goodman, N., LANGUAGES OF ART, AN APPROACH TO A THEORY OF SYMBOLS, Hackett, Indianapolis/Cambridge 1976 (I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, Milano 1976).
  16. LOVELOCK, J., L'ENERGIE NUCLEAIRE EST LA SEULE SOLUTION ECOLOGIQUE, IN LE MONDE LE 01 JUIN 2004.

Torna su

 

Archivio de Il sole a 360 gradi




Pionieri dell'energia solare in primo piano:
» G. Ciamician
» G. Francia
» G. Vinaccia







Video della mostra
"Le città solari"
al Festival della
Scienza 2006




Gruppo per la storia dell'energia solare

Considerata una ONLUS (Organizzazione non lucrativa di utilità sociale)
ai sensi del decreto legislativo del 4 dicembre 1997, N. 460, Art. 10, comma 8.

Iscritto nel Registro della Regione Lazio delle organizzazioni di volontariato

Copyright © 2004-2016 GSES Tutti i diritti riservati